“Sono arrivata al punto in cui tu parti per New York”
mi dice un’amica che sta leggendo il libro
“Non sono io, è la protagonista che parte per New York”
Replico io. E poi dovrebbe saperlo benissimo.
Chissà perché se si scrive un romanzo in prima persona si
pensa a un autobiografia.
Vorrei sfatare questo mito, anche se non del tutto.
Chi scrive parla di sé, questo è innegabile, ma parla di sé non raccontando gli eventi particolari della sua vita,
parla di sé attraverso la vita immaginaria dei personaggi del suo libro.
Se si scrive un’autobiografia lo si dichiara in ogni caso
fin dal principio.
E poi a chi interessa l’autobiografia di una persona
sconosciuta?
O sei un personaggio famoso, o la tua vicenda di vita è cosi
estrema da poter destare l’interesse di un certo pubblico, altrimenti scrivere
una biografia non ha un gran senso tranne che per se stessi.
Certo nei personaggi mettiamo un po’ di noi.
E noi siamo il risultato delle vicende che abbiamo
attraversato nella nostra vita e anche di quello che abbiamo osservato intorno
a noi e che abbiamo “sentito” un po’ come nostro.
La descrizione fisica o caratteriale di un personaggio può
essere ispirata a persone che conosciamo bene oppure solo in maniera vaga.
Magari è il vicino di casa che incrociamo per le scale tutte
le mattine andando al lavoro e ci immaginiamo un po’ della sua vita attraverso
il sorriso cortese che ci rivolge o le frasi che scambiamo.
Il punto di partenza può benissimo essere la realtà, poi,
nelle vicende del romanzo, di solito ce ne discostiamo per poter raccontare
quello che pensiamo davvero.
Il personaggio di un libro trasmette un’idea che amiamo o
odiamo, attraverso di lui esprimiamo quello che siamo o vorremmo essere o,
quello che detestiamo profondamente e che disapproviamo.
Il personaggio cresce, soffre, piange e ride con noi.
E nel romanzo diventa vivo e più reale che mai.
E nel romanzo diventa vivo e più reale che mai.
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